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Ciao boemo

Zeman

Roma-Cagliari è il capolinea per Zeman, la sua avventura giallorossa finisce qui. E forse non solo, vista la sua età avanzata, anche se il boemo solo 7 mesi fa guidava uno spettacolare Pescara in serie A.

All’andata era stato 3/0 a tavolino per la Roma, a causa di una follia di Cellino (forse ancora in discussione di fronte a qualche Tribunale, e quindi potenzialmente revocabile, questo aspetto non è molto chiaro); la Roma chiese l’applicazione del regolamento ed il conseguente 3/0, ottenendolo fra gli insulti del presidente del Cagliari: oggi finisce 4/2, e forse qualcuno dirà perfino che il gol di Marquinho nei minuti di recupero salva la differenza reti nello scontro diretto…

Ma è l’avventura di Zeman sulla panchina giallorossa che finisce poche ore dopo, esonerato da una dirigenza ormai odiata dalla tifoseria, con l’accusa (assurda, pesantissima) di essere tutta laziale: visto che Lotito è tacciato di essere romanista, potremmo anche pensare ad un cambio alla pari.

Il boemo si era riavvicinato alla Roma con grande entusiasmo, tanto che ad inizio stagione molti tifosi parlavano addirittura di scudetto, più o meno apertamente. La piazza, che ben ne conosceva pregi e difetti, sembrava averlo accolto bene, con gli abbonamenti aumentati del 41%; i giocatori, Totti in testa, sembravano entusiasti.

E invece sono bastate 23 partite di campionato (1 nemmeno disputata), 49 gol fatti e 42 subiti – 9 sconfitte, per esonerarlo, più o meno a furor di popolo, anche se molti continuano ad essere zemaniani, ormai più per partito preso che per estrema convinzione. Una difesa spesso imbarazzante, un portiere uruguayano pescato chissà dove e messo fra i pali al posto del titolare olandese, un centrocampo in difficoltà nelle due fasi col problema di De Rossi a mezzo servizio, un attacco che nonostante il buon numero di reti segnate ha messo in mostra carenze di cinismo e continuità. Se ne va nonostante una finale di Coppa Italia da conquistare, e chissà che anche su questo particolare il Cagliari non abbia contato, non essendosi giocata la semifinale di ritorno in settimana proprio per l’opposizione di Cellino. Pensare che proprio in Coppa Italia, a Firenze, Zeman per la prima volta in vita sua aveva cambiato modulo, giocando con 3-5-2, e non col solito 4-3-3 immutabile (con la Lazio, in 2 anni e mezzo, lo mise da parte in un secondo tempo a Torino con la Juve, tramutandolo in 4-4-2: la Lazio, salvata da un monumentale Marchegiani, vinse 3/0 quella partita). Sembrava l’inizio di una svolta epocale, e invece si è proseguito col modulo base, e con caterve di gol prese, praticamente 2 di media a partita.

Zeman se ne va, accompagnato dall’insoddisfazione dei tifosi che lo avevano acclamato quest’estate, ma anche della dirigenza che lo aveva scelto, scontenta non solo dei risultati ma anche del fatto che il boemo ormai di fronte ai giornalisti divaghi su qualsiasi argomento senza parlare di calcio, oltre che di alcune scelte tecniche opinabili. Paga anche una squadra che da tre anni non si ritrova e cambia tecnico ogni anno, accumulando delusioni in serie, forse per aspettative troppo alte, forse per un ambiente impossibile, forse per una società ancora alla ricerca della quadratura del cerchio. O forse per uno spogliatoio, quello di Trigoria, ingovernabile.

Paradossalmente questa è anche la sconfitta di Totti: lui era il cocco di Zeman, il miglior giocatore che il boemo avesse mai allenato (ipse dixit), ma non è riuscito da capitano a difenderlo, dall’ambiente e dai suoi compagni, nonostante una personale stagione molto positiva fin qui. Segno che il Pupone nello spogliatoio è un’entità a se stante, forse periferica, non ascoltata nemmeno in società.

Forse Zeman lascia oggi il calcio, forse solo il grande calcio, e per lui già dall’anno prossimo ci sarà una ripartenza in qualche piccola società, per lanciare altri talenti, cosa che predilige. Pur avendo lui nel cuore la Roma di Totti, Cafu e Tommasi, la sua squadra migliore (oltre al Foggia dei miracoli, ma a livelli più bassi) è la Lazio di Signori Fuser e Casiraghi, che per un paio d’anni giocò calcio ad alti livelli, pagando anche lì una difesa debole in alcuni uomini, e gli scarsi cambi a centrocampo.

Rimane comunque la sua idea di calcio, un 4-3-3 spettacolare con la quale non ha mai vinto nulla, se non delle Promozioni in serie A con squadre di provincia (e grandi calciatori in erba, che si sono enormemente giovati dei suoi insegnamenti), e caterve di gol segnati, anche da giocatori mediocri.

Un’idea amata da molti, ma che dopo il boemo sarà difficile trovare riproposta da altri, se non in rare occasioni. E suona paradossale, in effetti, che l’unico nella storia del calcio italiano a vincere uno scudetto con il 4-3-3 sia stato Marcello Lippi alla guida della Juve di Vialli e Ravanelli, ovvero i nemici giurati di Zeman.

Io credo che questo di Zeman sia un arrivederci, non un addio: troverà ancora una panchina sulla quale insegnare calcio a modo suo, con i suoi pregi e i suoi difetti, la sigaretta in bocca e le sua frasi smozzicate. Ma è un arrivederci per molti al calcio dei sogni: da domani diversi si risveglieranno capelliani per sempre, indietro non si torna.

“Purtroppo, nel calcio di oggi, conta solo il risultato e nessuno pensa più a far divertire la gente. Non ha più importanza se il pubblico va allo stadio, o da un’altra parte” (Z.Z): ciao boemo. Buona fortuna.

@aletozzi

La guerra di Piero


©A.S.D. Venturina Calcio – http://www.asdventurina.it

17 Ottobre 2004: durante una partita di serie D, Venturina-Rieti, Piero – raccattapalle diversamente abile – viene invitato dall’arbitro ad allontanarsi dal campo perché troppo lento a ridare la palla in campo.

Mi chiamo Piero. Ho 44 anni, 3 mesi e 26 giorni. Da 4 anni, 1 mese e 11 giorni faccio il raccattapalle per il Venturina, che gioca a calcio, in Interregionale. Almeno fino al 17 Ottobre scorso. Quando, nell’intervallo, sul punteggio di 1-1, nell’intervallo l’arbitro mi ha detto di allontanarmi dal campo perché la squadra avversaria, il Rieti, ha detto che li disturbavo perché ero troppo lento a ridare la palla in campo. Stupidaggini.

In questi 4 anni, 1 mese e 11 giorni nessuno si è mai lamentato di me. Anzi, molti avversari mi hanno regalato le loro magliette, tirando anche due calci al pallone insieme a me. Uno in particolare me lo ricordo, aveva una sorella come me lui e vedermi lì, a sorridere insieme agli altri guardando una partita di pallone, gli si è aperto il cuore e mi ha abbracciato. È stato bello. Era da parecchio tempo che qualcuno non mi abbracciava, almeno da quando sono morti i miei genitori, qualche anno fa. Anche l’altro giorno, dopo che mi hanno cacciato dal campo, molti mi hanno abbracciato, forse perché stavo piangendo. O forse perché sembravo un bambino al quale hanno tolto un giocattolo. L’unico che aveva.

Ora, dopo che i giornali ne hanno parlato, sono diventato famoso, mi hanno invitato in tv, i giornali mi chiamano, la gente mi saluta, a volte mi sorride anche. Ma questo, invece di farmi piacere, mi fa male. Perché lo fa per salutare il Piero che non sono io, ma il personaggio pubblico, quello che per un mese va sui giornali e in televisione. Fra un mese tutta questa gente non si ricorderà nemmeno chi sono. Ma a me questo non interessa.

Quello che mi importa è solo poter fare il raccattapalle la domenica, il mio posto è lì vicino ai ragazzi. Mi chiamo Piero. Ho 44 anni, 3 mesi e 26 giorni. Negli ultimi 15 giorni sono stato famoso, ma non mi importa. Voglio solo essere un ragazzo down felice, che continua a seguire le partite del Venturina. Non mi sembra troppo.

@aletozzi

Porcate

Il nome descrive in maniera perfetta il gioco. Un modo di essere già grandi anche da piccoli. Lo “praticavo”, se mi si passa il termine, in un condominio della Roma bene, quartiere Balduina, dentro ad un bel giardino al centro di una decina di palazzi, poco sopra una piscina dove abbiamo trascorso parecchi scorci della nostra gioventù. C’erano, in verità, altri due giochi molto gettonati in piscina, che potrebbero essere anch’essi spunti per parecchi racconti.

Uno era quello del calcio a bordo vasca, con una sedia come porta e palla piccola, si segnava solo sotto la sedia, quante vesciche rimediate giocando su quel maledetto asfalto… Il secondo, entusiasmante, lo avevamo chiamato “Piscinetta”, e veniva ovviamente giocato nella piscina dei bambini, un portiere a difendere un lato della piscina quadrata, la palletta piccola, un centravanti in vasca (a volte due, quando si era in tanti), e ai lati quattro cinque persone a fare i cross per questo sciagurato, che di piede o di testa doveva infilarla nello spazio fra l’acqua e il bordo della piscina. Gioco straordinario, davvero. Io quando c’ero ero il portiere, e stazzavo già quasi cento chili tuffandomi a destra e a sinistra come un matto per parare questa palletta a volte impazzita, tanto che un giorno un’inquilina si lamentò dicendo che c’era una specie di rinoceronte che faceva degli schizzi molesti ed insopportabili dentro alla piscina dei bambini, ma quell’anno per fortuna il bagnino era appassionato di calcio e lasciava fare, anzi a fine serata si metteva a giocare anche lui insieme a noi. Ma questi sono giochi forse più banali e che molti hanno alle loro spalle, qui siamo partiti da ben altro, da un gioco che già rendeva adulti a quindici anni, e forse insegnava ad affrontare la vita stessa. O, quanto meno, a capire come doveva essere da grandi: dura, molto dura.

Il gioco, dal nome “Porcate”, che era tutto un programma, era più o meno questo: uno spazio rettangolare di un centinaio di metri quadri, con ringhiere su quasi tutti i lati, diviso per terra in lastroni anch’essi rettangolari di circa ottanta centimetri per un metro. Qua e là piante, anch’esse in vasi rettangolari, a creare disturbi, ed a movimentare le sfide. Si giocava finché c’erano rettangoli disponibili, ho visto sfide anche con venti persone a volte. Regole banali, ma categoriche: si giocava con una palletta piccola (sempre quella della piscinetta), solo con le mani, volendo anche colpendola al volo ma più facilmente dopo un rimbalzo, quello consentito. Ognuno doveva semplicemente rimetterla nel campo di un altro, nulla di più. Ogni giocatore aveva tre vite (a volte, quando si cominciava a giocare sul far del tramonto solo due, chè il gioco doveva essere più veloce). Mano mano che i giocatori venivano eliminati, ci si stringeva abbandonando i rettangoli periferici, per stare comunque tutti vicini.
In teoria, detta così, un gioco banale e di interminabile durata, si trattava di palleggiare fino a che qualcuno non avesse sbagliato, o di tirarsi fortissimo l’uno con l’altro, cercando così di far sbagliare qualcuno. In pratica, era un gioco che aveva in sé tutti i crismi del grande gioco che è da sempre il nostro Parlamento italiano. La grandezza di Porcate, nome assolutamente calzante rispetto alla filosofia del gioco, era tutta nell’intreccio, nell’inciucio, nel cercare di stringere una rete di alleanze con i vicini di campo per evitare che qualcuno, prima o poi, ti tirasse una botta da un metro durante un banale palleggio, sottraendoti così una delle tue tre vite. E, spesso, persa la prima vita, il passo era breve per morire definitivamente, gli altri giocatori erano lì come sciacalli che odoravano il tuo sangue, pronti a farti fuori appena ti mostravi loro più debole.

C’era in porcate non meno tattica di quella che possiamo trovare nel Risiko, ma senza alcuna componente di fortuna, che era data solo dalle piante in mezzo al campo, che a volte davano strane traiettorie alla palla, e ti facevano perdere anche quando nessuno aveva cercato di toglierti la vita in quel frangente, tanto che in una versione successiva del gioco, più legata a regole e certezze, si passò a ripetere ogni scambio nel quale la palla comunque toccava una di queste piante, che a quel punto venivano viste come salvifiche. Quante polemiche mi ricordo per una palla sulla riga o giù di lì, per una pianta sfiorata dall’uno o dall’altro durante uno scambio, per una “palla accompagnata”; quanti musi, quante litigate, anche feroci, fra amici fraterni. Ma quanta voglia di ricominciare il giorno dopo, per vendicarsi dell’amico che ti aveva eliminato, per rimanere in gara il più a lungo possibile, per divertirti anche tu facendo porcate a quello del rettangolo accanto che da uno come te proprio non se l’aspettava.
Il gioco, alla fine, premiava i tattici, quelli che rimanevano nell’ombra, gli attendisti per definizione, mentre puniva inesorabilmente quelli che si volevano solo divertire nel gioco (tapini…) o chi si metteva da subito in guerra con i vicini, che prima o dopo restituivano la pariglia. I primi a saltare erano sempre gli anelli più deboli della catena: o i più giovani, o i meno simpatici, o quelli che non erano del condominio, e dunque avevano meno possibilità di stringere alleanze importanti.
Poi fra quelli che rimanevano iniziava la partita vera. Titic, e totoc, e titic, e titoc, fino a che qualcuno sbagliava, per colpa sua o perché qualcuno aveva fatto una porcata, inducendolo all’errore fatale. Se qualcuno aveva fatto una porcata, siccome chi sbagliava aveva poi diritto alla battuta, come nel tennis, e questa poteva essere letale se ben sfruttata, si assisteva spesso ad una pantomima del “colpevole”, che si trincerava dietro a un “non l’ho fatto apposta, mi è scappata la mano, non vorrai mica metterti lì a cercare di farmi una porcata, eddai”, arrivando perfino a volte ad implorare il tizio (o la tizia, visto che porcate era giocato anche dal gentil sesso, sebbene non si ricordano nella storia del condominio affermazioni di una ragazza) di non mettersi lì a fare la guerra. Anche perché, e qui era il bello, avendo quell’altro, il tipo in battuta, già una vita in meno in partenza, era chiaro che se si fosse andati al muro contro muro, e ognuno avesse sfruttato il suo turno di battuta, il primo ad uscire sarebbe stato proprio il tizio che si apprestava a battere. Che, quindi, spesso si faceva convincere a non muovere guerra, e altrettanto spesso veniva immediatamente punito da colui il quale gli aveva inflitto la prima porcata, che spesso nel giro di pochi secondi gliene infliggeva un’altra. Scatenando così il suo immediato risentimento e la inevitabile guerra, ma partendo da tre vite contro una sola. A quel punto l’odore del sangue era fortissimo, e i pescecani accanto si moltiplicavano, e non bastava saper nuotare per uscirne vivi, una botta da un metro e via, eri fuori.

Gli ultimi due a rimanere in gara se la giocavano, sempre con la regola delle tre vite, ma ricominciando da capo, sempre a tennis con le mani, utilizzando i due campi centrali. Lì, a quel punto, ma solo a quel punto, sopravvissuti a tutte le porcate possibili e immaginabili, contava solo la bravura. Ma la finale era decisamente il lato meno interessante del gioco, l’importante era arrivarci. La cosa divertente, a parte il gioco in sé, era anche l’aspetto strettamente sociologico di Porcate, e chi usciva di solito rimaneva per vedere come sarebbe andata a finire, si era curiosi di sapere chi sarebbe stato il vincitore di quella partita, quali strategie avrebbe usato, per poi cercare di metterle a frutto durante la partita dopo. Quando però già non servivano più, ogni partita – proprio come la vita, e forse anche ogni singola legislatura del nostro Parlamento – faceva storia a sé, era un universo a parte, difficilmente riproducibile a comando, anche perchè i campi ed i giocatori cambiavano, e quindi si dovevano stringere nuove alleanze con persone diverse.

Il gioco non aveva arbitri, regnava la legge del più forte e quella del gruppo, raro esempio di democrazia popolare, autoritarismo e oligarchia, da fondersi tutto insieme in una strana miscela, spesso esplosiva, ma comunque divertente ed istruttiva.
Ho visto gente che aveva ragione da vendere vedersi togliere in maniera spudorata una vita, e gente che aveva torto farsi forte degli amici che aveva vicini per non morire. Pure, nonostante il libero arbitrio assoluto, nessuno ebbe veramente mai a che ridire del gioco e di chi abitualmente ne dettava le regole: chi entrava, anche solo per una partita, ne accettava immediatamente tutte le regole, nessuna esclusa. E, se era bravo, a volte vinceva anche, non era affatto obbligatorio che vincesse uno del condominio, anche perché non c’erano due squadre contrapposte, e tutto sommato non ci voleva un’abilità particolare per giocare.
Si trattava di essere tattici, un po’ sociologi, e molto politici. Probabilmente un piccolo Berlusconi sarebbe risultato spesso vincitore, mentre più facilmente un piccolo D’Alema sarebbe più facilmente risultato antipatico, e tirato fuori a furia di porcate dagli altri contendenti. Ma erano regole che saltavano ad ogni partita, a volte erano proprio quelli più tattici ad essere eliminati per primi, proprio perché più pericolosi, spesso odiati per il loro nascondersi dietro una pianta periferica, rimanendo lì ad osservare gli altri che si battagliavano. Ricordo che si rimaneva a giocare anche dopo il tramonto, alla luce di un paio di lampioni, che rendevano ancora più discutibili le righe, e rendevano ogni vittoria ancora più polemica, e per questo più bella per chi la otteneva. Poi, ogni sera, arrivava un richiamo da casa, la cena era pronta. Tutti sudati spesso si faceva una doccia di sotto, se era estate e la piscina era aperta, si salutava la compagnia e ci si dava appuntamento al giorno seguente, altrimenti si tornava a casa così, come capitava, pronti a sorbirsi qualche lamentela dei genitori, che vedevano in tutto questo niente altro che una inutile perdita di tempo. Non avevano capito niente.

Ora molti di quei protagonisti sono affermati professionisti, qualcuno anche politico. Gente importante, realizzata, con vestiti da mille euro nell’armadio, che nella vita ha il fido in banca, e fa le vacanze al mare d’estate e in montagna d’inverno.
Forse non lo sanno, ma Porcate loro ce l’hanno nel sangue, è cresciuto insieme a loro, anche se non ci giocano più da dieci e passa anni. E li vedi, quando stanno per farne una nella loro professione, nella vita quotidiana, che si mettono lì proprio come avrebbero fatto su quel rettangolo di gioco, con un sorriso sardonico, che preannuncia la porcata.
Che puntuale arriva, a chi tocca tocca, c’è poco da fare.
Tornano bambini, chissà; forse si sentono vivi, o forse è una cosa che è nel loro Dna, vai a capire, ma il gusto della Porcata è rimasto.
Solo che è cambiato il mondo circostante: non tutti accettano le regole, non tutti sono pronti a calarsi in quel contesto, tutti o quasi se la prendono per una Porcata. Non hanno capito che non c’è cattiveria dietro, c’è solo un gioco, un bambinone in giacca e cravatta che caccia una botta alla palla con le mani in quel rettangolo d’asfalto solo con il sano divertimento di farlo, in attesa che prima o poi i tuoi ti chiamino per quel piatto di pasta al sugo già a tavola, senza rancori che durino più di tre minuti contati, anche se si erano combinate porcate belle grosse, e degne di essere ricordate nei giorni a seguire da tutti gli amici del condominio. Lo vedo ora quel bambinone che alla fine della partita lascia il campo tutto sudato, in giacca e cravatta, e si dirige verso casa nella notte buia, meditando sulla bella giornata appena trascorsa. Ha il viso di uno di noi, forse sono io stesso.
In faccia, chiunque egli sia, ha stampato un sorriso: oggi è stata una bella giornata e la vita, domani, è un libro tutto da scrivere. L’importante è che si possa giocare anche domani.

@aletozzi

London calling – day 14

Non possiamo sperare che la vicenda Schwarzer finisca. Possiamo solo sperare che se ne parli un po’ meno grazie a qualche medaglia d’oro degli azzurri. È arrivato il momento dei tornei di squadra, che rimangono fra le medaglie più belle delle Olimpiadi, quelle che oltretutto definiscono davvero un movimento rilevante. L’Italia al femminile è uscita ai quarti nella pallanuoto (ci stava), e nel volley (molto meno, eravamo decisamente favorite contro la Corea del Sud); le due compagini di beach volley sono uscite ai quarti, le donne contro le campionesse Usa che poi hanno rivinto, gli uomini contro una coppia di olandesi ex campioni olimpici di volley.

In alcuni sport non siamo mai pervenuti (non so quali risultati possa vantare la nazionale italiana di pallamano, per non parlare dell’hockey su prato), nel calcio non ci siamo qualificati, ci rimangono volley e pallanuoto maschile. Oggi, a rasserenare il clima pestilenziale della conferenza del nostro marciatore, ci hanno salvato loro.

Il volley ha battuto in tre set, tutto sommato anche senza soffrire troppo, i campioni olimpici statunitensi, che avevano vinto il girone: non grandi individualità, ma ottima compagine. L’Italia, dopo un girone balbettante, ha fatto una grande partita ed è passata. Sul 23 pari del primo set, l’arbitro ha considerato buona una battuta americana fuori di 30 cm. In altre occasioni saremmo usciti di testa e di partita, in questa siamo rimasti lì, e abbiamo fatto la nostra partita. La nazionale di volley è guidata da Mauro Berruto, ex allenatore della Finlandia, uno che ha come frase esistenziale una di Coelho “bisogna rischiare. Capiremo perfettamente il miracolo della vita quando permetteremo all’inaspettato di accadere”. Uno che ha scritto 2 libri di sport sotto forma di romanzi e non come libri tecnici, e che sul suo sito personale mette Oceano Mare di Baricco come il libro della vita. Uno che ai cambi di campo non parla quasi mai di tattica. Insomma, uno diverso: non so dove ci porterà questo mister, ma sicuramente ha un approccio diverso con il volley e con la vita.

La pallanuoto ha battuto i tricampeon olimpici ungheresi dopo una bella partita, sofferta al punto giusto, ma sempre comandata. In nazionale abbiamo un cubano naturalizzato, un ex australiano, un ex croato e uno nato a Budapest. Nel volley i due schiacciatori sono Lasko, polacco naturalizzato, e Zaytsev, figlio di due atleti russi che si sono trovati a giocare, e poi vivere, in Italia. L’allenatore è Sandro Campagna, grande giocatore, che ha allenato anche la Grecia. Vedere Scariolo allenare la Spagna di basket, Damilano la marcia cinese, Messina e Pianigiani due delle più grandi squadre del mondo nel basket. Capello, Lippi, Mancini, Ancellotti, Spalletti e tutti gli altri nel calcio, fa pensare che la scuola italiana è ormai parte di un tutto, pur mantenendo le sue prerogative nei singoli sport. Sentire Zaytsev che parla umbro stretto, e nella panchina bulgara un allenatore pugliese che insulta i giocatori in italiano, fa quasi pensare che il concetto di nazione da tifare sia venuto meno. Non è così. Ed anzi, le medaglie negli sport di squadra sono le più belle, che vengono dopo partite combattute che durano 2 ore, e magari non dopo una prova agli anelli che dura 1 minuto (con tutto il rispetto per gli anelli). E speriamo di vincere anche le due semifinali, sarebbe un bel risultato per il nostro sport, soprattutto per il nuoto, tanto vituperato in queste Olimpiadi.

Oggi mi ha colpito un servizio Rai, di passaggio fra una partita e l’altra. C’era la Cagnotto sul trampolino, i suoi tuffi, le sue lacrime, e immagini di bambina che si mischiavano a quelle di adulta, sempre abbracciata e consolata dal padre, con in sottofondo la canzone La Cura di Battiato. Non si poteva non commuoversi. Esattamente come alla conferenza stampa di Schwarzer, alle sue lacrime a dirotto pensando alla madre che doveva aprire la porta a quelli del Coni, e lui che dentro di se voleva urlarle che non c’era per evitare il controllo, ma poi non ce l’ha fatta, bloccato dai mostri che aveva dentro. Siccome, come detto, coltivo una passione smodata per i perdenti, queste Olimpiadi sono della Cagnotto, della Ferrari, della Pellegrini e di Schwarzer. Ognuno perdente a modo suo. Ognuno vincente a modo suo. Figli diversi di quella strana nazione che è l’Italia. Lacrima. Bandiera sullo sfondo. Dissolvenza.

@aletozzi

London calling – day 13

Le Olimpiadi si disputano ogni 4 anni, come è noto (quelle invernali nemmeno le conto, mi interessa solo il curling poiché mi da la misura che si può essere olimpionici anche con poco, che è una grande speranza per tutti, in fondo. Quasi come il sogno diventare presidenti americani). Come i Mondiali di calcio, in fondo, scandiscono la nostra vita, che anche atleti non siamo, figuriamoci di chi deve parteciparvi. Oggi sentivo che qualche sconfitto già dava appuntamento a Rio 2016, quasi accorciando la vita reale nel tentativo di fare dell’appuntamento brasiliano un’ideale rivincita della sconfitta odierna. Qualcuno invece lascia, poi magari riprenderà, chissà. Qualcuno è indeciso, ed attende l’arrivo di nuove motivazioni per riprovarci; se pensiamo che la Vezzali, la donna più medagliata della storia olimpica italiana, ha già annunciato che a Rio ci vuole essere, mentre siamo in dubbio ci sia la Pellegrini che ha 14 anni di meno, comprendiamo come la testa di un atleta possa far molto, anche grazie magari a sport che lo consentono.

E’ bello che già si pensi al 2016. Aiuta ad esorcizzare il presente, proiettandoci nel futuro lontanissimo. Ma in fondo dietro l’angolo. Nel 2016 avrò 48 anni, e sarò alla mia tredicesima Olimpiade, ma sarà in pratica solo la decima realmente vissuta. Chissà come la vivrò, e se la vivrò. Per ora mi godo a tempo pieno queste, dopo almeno 2 Olimpiadi viste poco e niente, Atene e Pechino. A parte i problemi della Rai, e quelli dei diritti televisivi, trovo uno sport più globalizzato rispetto a come l’ho lasciato a Sidney. Tutti possono fare risultati in ogni campo, bastano impegno, talento e programmazione. Scorrendo l’elenco delle medaglie delle ultime Olimpiadi, comprendiamo anche la mappa del potere economico da un lato, e i programmi alle spalle di alcune nazioni dall’altro. La Cina è ormai la prima nazione nel medagliere, impensabile 20 anni fa. La Corea se la batterà per il terzo posto, idem. La Russia sta scomparendo via via, sostituita in parte da alcune sue ex repubbliche; l’Africa sale pian piano; nuovi paesi si affacciano alla ribalta, altri lentamente quasi scompaiono: alcune nazioni del blocco sovietico sono in piena crisi. E la stessa opulenta Germania, finita la Germania Est e il suo bacino di atleti, sta pagando dazio. Mentre va forte l’Inghilterra, che ha scommesso molto su un progetto a lunga scadenza per le Olimpiadi 2012, e ora sta ricevendo  frutti dell’investimento. Si difende bene la Francia, non decolla la Spagna, rimangono fra le più medagliate anche Australia e Giappone, delle vecchie potenze; rimane fuori dai giochi incredibilmente l’India, e in fondo anche gli sceicchi non è che investano in sportivi locali i loro soldi, preferiscono comprare squadre europee, forse guardano troppa tv…

L’Italia… l’Italia è quasi un miracolo, a pensarci. Buona parte della nostra squadra è di militari, l’ultimo rimasuglio delle partecipazioni statali. Non ci sono impianti, non ci sono investimenti (perché non ci sono soldi), non ci sono programmi: ci sono solo funzionari ben pagati, quello sì. Ci sono, però, tante isole felici, tanti talenti e tantissima passione: quella è tangibile, si tocca quasi con mano anche dalla televisione. Una passione che coinvolge anche gli sportivi ricchi, quelli che con lo sport ci campano e bene: l’Olimpiade aiuta a sentirsi parte di un tutto, cenare una sera con un polacco e quella dopo con un giamaicano toglie quella patina di puzza sotto al naso che alcuni sport tendono ad avere, se non altro per il conto in banca.

Non so quante medaglie vincerà l’Italia alla fine. Per ora siamo a 17, spero siano il doppio per superare le 27 di Pechino, ma sarà difficile. Certamente, dietro ogni medaglia c’è una storia, singola o di un gruppo; ci sono fatica, allenamenti, scelte, esclusioni eccellenti, scoperte. Come c’è una storia dietro ogni gara, e dietro ogni singola prestazione di ognuno dei nostri. Che qui, per 15 giorni, perdono la loro individualità – pur mantenendola in gara – e diventano atleti italiani, da tifare a prescindere da ogni tipo di campanile.

Perchè bisogna capire che, e chi l’ha fatto lo sa, lo sport è una fantastica cartina di tornasole dell’esistenza umana, ed una palestra di vita. Perchè facendo sport si insegnano ai ragazzi molte più cose di quelle che puoi insegnare controvoglia a scuola, per esempio. Ci pensi chi decide le sorti dello sport italiano, dove si trasmette in tv per il 95% soltanto calcio senza nemmeno che si sappia se un italiano ha vinto un mondiale in altri sport.

@aletozzi

London calling – day 11

Coltivo da sempre una passione smodata per i perdenti. E lo sport, più di ogni altra occasione, è il momento dove vittoria e sconfitta trovano una propria definitiva certificazione: non si può mai barare rispetto al riscontro del campo, fosse anche frutto del caso, di sfortuna o di una magagna arbitrale.

La sconfitta in una gara olimpiaca ha mille volti, e mille sfumature.

L’ottavo posto della esordiente e trentaseienne Straneo, mamma di due bambini, nella maratona femminile non suscita rimpianti, anzi solo grande felicità. Il sesto posto del ciclista Viviani ci può anche stare, ma considerando che il nostro era primo fino all’ultima prova si intuisce la rabbia per questa mancata medaglia. Chi l’ha presa con un sorriso, ma dentro deve avere un mondo in subbuglio, è il 34enne ginnasta Busnari, quarto al cavallo con maniglie, mai a medaglie alle Olimpiadi, con la giuria che ha probabilmente regalato un bronzo ad un inglese, ma vai a capire da profano chi è più bravo e chi meno. Piangono le azzurre del beach, ma hanno perso (male) contro due mostri sacri: forse dovranno ripensare alle loro parole spavalde di ieri che a loro non importava giocare con quelle o quelle altre, ma la sconfitta aiuta anche a questo. Male le ragazze della pallanuoto, non è più il gruppo di Formigoni, ed è anche cambiata la pallanuoto nel frattempo, è una sorta di rissa in acqua che mal si addice alle nostre. Ha le sembianze di una ginnasta americana, che alla fine di una gara al ciapanò al volteggio stava vincendo, e invece è atterrata di sedere, una scena quasi comica, e ha comunque vinto l’argento.

La sconfitta ha il viso di Pistorius, ultimo in batteria nei 400, felice di essere qui, e di scambiare il pettorale col vincitore della batteria. O quello della ginnasta americana che non salta nemmeno, ed esce di scena quasi in silenzio. O forse quello di Federer, che mai pensava di poter perdere da Murray in questo modo una finale. O anche quello del nostro Giordano, che finisce quinto nella pistola in rimonta, e ridendo dice che per lui quel piazzamento è come mettere una medaglia al collo.

Oggi, però, la sconfitta ha solo il viso dolce di Tania Cagnotto, che per 0.20 punti (su 360 e oltre) ha perso il bronzo, e l’ennesima medaglia olimpica della sua lunga carriera, che a questo punto non può finire qui. Il pianto sommesso, la voce arrotata ed incrinata, i toni sempre signorili dicono tanto di questa ragazza, cui probabilmente manca un po’ di cattiveria anche nella vita per mettere al collo una benedetta medaglia. Andrebbe fatta allenare non con il padre, altro signore che non parla mai male delle giurie che fanno e disfanno in questo e in altri bellissimi ma maledetti sport, ma con dei personaggi alla Stefano Cerioni, che partecipa alle gare del fioretto come se l’avesse in mano anche lui, magari da dare in testa ai suoi, ricordando i tempi in cui vinceva in pedana anche facendo il matto.

E’ una sconfitta dolce e amara. Un quarto posto durissimo da mandar giù che certamente non la ripaga di speranze e sacrifici, ma che nel ricordo della gente equivale a una medaglia d’oro, e forse anche più, perchè alla fine ci si affeziona di più ai perdenti, soprattutto se perdono da vincitori.

E Tania oggi, e nella vita, certamente lo è.

La faccia della vittoria oggi ha solo due volti: Usain Bolt nei 100 mt che sbaraglia il campo (ma che gli danno agli atleti in Giamaica, a parte le canne?) e Andrea Baldini nel fioretto a squadre, che ci da la settima medaglia di una Olimpiade da incorniciare.

Ma stasera non mi interessano i vincenti, peggio per loro. O anche per l’oro, chissà…

@aletozzi

London calling – day 10

Giornata di imprese (la Rossi), di cazziatoni pesanti degli allenatori italiani (Berruto in diretta Rai che insulta i suoi accusandoli di giocare da soli, e Campagna) e dei dirigenti (il Presidente della scherma contro le donne della sciabola, subito uscite oggi); di squadre più forti che soffrono ma alla fine vincono; dell’Inghilterra del calcio che patisce in casa la sua Corea; di allenatori che vanno in Cina a vincere in specialità non tradizionali.

Jessica Rossi da Crevalcore nella finale di piattello è una macchina perfetta, che fa 99 su 100 e record del mondo, a 20 anni. Il primo piattello lo sbaglia a 10 colpi dalla fine, fra gli applausi della folla (mi viene in mente il grande Nils Liedholm quando disse che giocando col Milan sbagliò il primo passaggio a San Siro dopo 5 anni, e venne giù lo stadio dagli applausi) e la sua risposta è un sorriso. In uno sport così, indovinare in un’Olimpiade una prestazione di questo tipo sa di magia, pressappoco. Magia che stava per fare anche la Perilli, atleta sanmarinese, finita solo quarta dopo uno spareggio drammatico che la poteva issare anche al secondo posto, e che invece la relega medaglia di legno, per la rabbia di tutta San Marino, che non ha mai vinto medaglie olimpiche (a proposito, grazie alla Rai per il trattamento della sanmarinese, ignorata nemmeno avesse la peste).

Per continuare con le donne, e questa ad oggi è l’olimpiade delle donne, dopo 2 ore tiratissime la medaglia del triatlon femminile viene vinta per 5 cm, in un finale fantastico: 4 anni di sforzi in 5 centimetri, dopo 2 ore di una delle gare più dure dell’Olimpiade. Davvero c’è da pensare che nelle cose ci sia un destino. Serena Williams vince singolo e doppio, tritando in finale la Sharapova. La Cagnotto si qualifica in finale nel trampolino come seconda davanti ad una cinese,  è notizia a sei colonne per ora, fosse la finale le colonne sarebbero nove, forse anche dodici.

Nella 20 km di marcia, la Cina piazza tre atleti ventenni nei primi quattro. E l’allenatore è il nostro Sandro Damilano, cose assurde. Gara pazzesca, con il russo campione olimpico che sviene letteralmente al 17mo km, perdendo l’equilibrio come avesse preso un gancio invisibile e crollando sulle transenne, mentre il cinese al comando insieme a lui che impazzisce, e comincia a dare il 5 a tutti gli spettatori che gli si parano davanti, e ammiccare alle telecamere: davvero impensabile per un atleta cinese per come li immaginiamo.

Finisce il nuoto, con ennesima scorpacciata americana, e altro oro di Phelps, che saluta e se ne va: anche gli altri debbono pur vincere qualcosa. Il cinese nei 1500 batte di tre secondi il record mondiale, ma fa una  falsa partenza poi revocata per errore arbitrale che sarebbe stata una beffa assurda: la sua faccia in piscina da solo vale il prezzo del biglietto. Azzurri a zero medaglie, in compagnia della Germania. La buona notizia è che da oggi non si parlerà più della Pellegrini: grazie Fede, anche per questo.

Giornata che ha visto salire di livello gli sport di squadra: da oggi non si scherza più. La Lituania a 7 minuti dalla fine era avanti con gli Usa nella pallacanestro, quasi lesa maestà; poi un paio di numeri degli statunitensi hanno rimesso la gara in carreggiata. L’Italia era sotto di due set con l’Australia nel volley maschile, e poi ha vinto. Il Brasile è stato 2 volte sotto con l’Honduras, ed ha recuperato (anche grazie all’arbitro, e alla sorte), vincendo 3/2. Esce la Gran Bretagna del calcio ai rigori per mano della Corea del Sud: ad ognuno la sua Corea…Gran Bretagna che però nell’atletica vince tre ori in venti minuti, compreso quello dei 10.000 maschili, e saprà dimenticare lo smacco subito.

@aletozzi

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Carabinieri, esercito, finanzieri, aereonautici, fiamme gialle, fiamme rosse, fiamme blu: gli atleti italiani sono tutti militari, in senso ampio. Indistintamente, uomini e donne. A qualsiasi età: la Fiamingo della sciabola è guardia forestale a 21 anni, in una Regione dove la disoccupazione dei ventenni sarà del 98% . L’arma italiana in soccorso degli sport minori, tanto che andiamo fortissimo nelle discipline dove si combatte, meno nelle altre. L’arma forse in soccorso anche dell’occupazione: un posto nei carabinieri, per una fiorettista di livello, non si nega, anzi. E’ il prezzo da pagare per rimanere a certi livelli: chi altro ti pagherebbe per allenarti 4 anni, in sport senza sponsor e senza pubblico ?

Ricordo sempre dopo ogni Olimpiade i pianti dei due Abbagnale, che chiedevano a gran voce il posto in banca per mettersi a posto economicamente, e potersi allenare in tranquillità: non gli interessava diventare finanzieri, volevano proprio il posto in banca loro. Che sia la buona riuscita nello sport la risposta definitiva alla disoccupazione nel nostro Paese ?

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