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Noi siamo della Lazio

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Stasera tutti sotto la Nord, maxischermo per vedere la partita a porte chiuse. Già che dentro ci siano 200 tifosi turchi, con i biglietti della delegazione, fa ridere, ma vabbè. Vedo di tutto: tifosi con il chiodo, con le birre in mano, bambini, vecchi e perfino le famiglie, quelle che allo stadio dicono non ci vadano più: ebbene, ci sono delle famiglie in piedi sotto la Nord a tifare Lazio. Ci sarebbe anche da commuoversi, ma Il maxischermo non funziona. Un classico. Ci sentiamo un po’ tutti come Fantozzi quando dà il pugno alla finestra e urla “chi ha fatto palo?”, e forse è bello così, pensando che l’ultima volta era accaduto in quella incredibile giornata dello scudetto del 2000. Il maxischermo continua a non dare segni di vita almeno fino a metà abbondante del primo tempo.

Dopo dieci minuti si esulta anche tutti come scemi, per un presunto gol della Lazio, mai avvenuto (è sempre lo stesso cretino che al primo numero che esce a tombola dice ambo, è sempre lui). A metà primo tempo abbandono per manifesta incazzatura, e vado a vedere la partita dal paninaro, in una tv minischermo ma che ci sembra bellissima, insieme ad altre centinaia di persone. La Lazio attacca, ma non passa. Tira una brutta aria. Nel secondo tempo torno allo schermo, nel frattempo rimesso a posto, anche se l’immagine va e viene. La Lazio preme, il gol è nell’aria. Mentre Candreva è lì sulla fascia che dribbla, sento uno accanto a me, radiolina all’orecchio, che urla come un matto: gooooooooool. Era vero, cross di Candreva, gol di Lulic. Momenti di grande tifo, c’è speranza allora; fumogeni, e almeno 3 minuti di partita perduta, non si vede niente. Riemergiamo dalla nebbia mentre entra anche Floccari, e speriamo. Peccato che da lì a pochi minuti, ancora il radiolinaro bestemmi mentre sullo schermo vanno ancora le immagini di un attacco dei turchi (l’unico del match, in pratica), capisco stia arrivando l’1-1, e addio qualificazione.

Alcuni se ne vanno, altri cantano, altri ancora insultano quelli che se ne vanno e non cantano. La Lazio attacca, ma si capisce che non è aria. Vedo il finale di partita dal paninaro, ma è sempre 1/1. Mentre vado via, a pochi metri da Ponte Milvio, una comitiva di ragazzini e ragazzine che non hanno nulla a che fare con la Lazio, si divertono a tirare bottigliate di birra a un palazzo, senza che alcun vigile ritenga di intervenire: fossero stati tifosi, avrebbero preso il Daspo per 3 anni probabilmente, qui nemmeno un cazziatone dai genitori, che ce frega. La Lazio stasera ha giocato a porte chiuse, per la seconda volta consecutiva, per dei cori razzisti. Alcuni dei suoi tifosi sono razzisti, probabilmente. Altri dicono buh anche avendo davanti Thomas Muller, se gioca contro la Lazio; altri dicono buh anche ai propri giocatori, se giocano male per la Lazio. Finisce un’altra serata, tipicamente laziale. Davanti abbiamo tante altre serate e partite come queste, altre bestemmie nelle radioline, altre false esultanze di fronte a un non gol, altre finestre da rompere per sapere chi ha fatto palo. E altri abbracci da darci ad un gol della nostra squadra, mentre Olimpia vola alta in cielo. Noi siamo della Lazio.

@aletozzi

London calling – day 15

Se sei l’uomo più veloce del mondo, per due Olimpiadi di seguito, sei anche l’uomo olimpico più famoso. Soprattutto se di fatto rinunci al record, perché a 30 metri dal traguardo ti volti per vedere dov’è il tuo avversario, e quando vedi che è dietro alzi il dito e lo baci, sul traguardo. Finale oltre ogni limite, perché Bolt è sempre Bolt, ma il secondo finisce con 19.44, un tempo meraviglioso. Ma soprattutto, queste Olimpiadi dichiarano chiuso, al momento, il dominio Usa, e aperto quello giamaicano nella velocità, fiore all’occhiello americano anche per la visibilità planetaria delle due gare: 5 medaglie su 6 nella specialità non sono più un caso. Che l’uomo olimpico 2012 sia un giamaicano, in un’edizione dominata al solito da Cina e Stati Uniti (con ottimi risultati per l’ospitante Regno Unito), apre le Olimpiadi anche al resto del mondo. E fa pensare quanto sia importante un campione per la storia sportiva di una nazione negli anni che verranno: chi ha insultato in questi mesi la Pellegrini dovrebbe pensare anche all’esempio dato in questi anni, che ha portato migliaia di ragazzi in piscina per emularne le gesta. Ma tutto è dimenticato in nome del risultato, al solito. Salvo adontarsi di ipocrisia per quanto accaduto a Schwarzer.

La giornata italica comincia con una grande gara, ed una brutta notizia: Josepha Idem fa una bellissima gara, e finisce quinta per tre decimi al fotofinish. Chiude qui, a 48 anni, una storia olimpica incredibile. E lei è davvero l’esempio da seguire con la E maiuscola, anche per la sua serenità, e per i figli che vanno a salutarla a fine corsa. Due bronzi strappati con le unghie e con i denti oggi. Donato e Grimaldi. Uno nel triplo, dove ci scopriamo quasi d’improvviso grandi triplisti, conquistando terzo e quarto posto; una nei 10 km di nuoto femminile, una gara durissima, con arrivo in volata, a dimostrare il grande equilibrio anche in sport quasi estremi come questo. Ci avviamo a vincerne una nella ginnastica artistica, ovvero 5 ragazze con una palla che fanno cose incredibili sulla pedana del corpo libero. Sport comandato dalle giurie come nessun altro. A Pechino l’Italia non vinse una medaglia nella specialità e fu scandalo, vediamo se 4 anni sono serviti per acquistare rispetto. Ieri ne abbiamo sfiorata, per una decina di punti, una nella piattaforma femminile, in questa edizione così sfortunata per i tuffi.

Cominciano a finire le discipline di squadra femminili, con grandi successi degli Usa, che riprendono quota sulla Cina per il medagliere finale. Commovente la cerimonia, se così vogliamo chiamarla, del triplista australiano argento nel 1948, morto nel 2006, le cui ceneri sono state sparse nella pedana del salto triplo prima della gara, voglio pensare col beneplacito degli atleti: uno dei casi in cui lo spirito olimpico diventa quasi un’ossessione, quasi come il doping.

London calling – day 14

Non possiamo sperare che la vicenda Schwarzer finisca. Possiamo solo sperare che se ne parli un po’ meno grazie a qualche medaglia d’oro degli azzurri. È arrivato il momento dei tornei di squadra, che rimangono fra le medaglie più belle delle Olimpiadi, quelle che oltretutto definiscono davvero un movimento rilevante. L’Italia al femminile è uscita ai quarti nella pallanuoto (ci stava), e nel volley (molto meno, eravamo decisamente favorite contro la Corea del Sud); le due compagini di beach volley sono uscite ai quarti, le donne contro le campionesse Usa che poi hanno rivinto, gli uomini contro una coppia di olandesi ex campioni olimpici di volley.

In alcuni sport non siamo mai pervenuti (non so quali risultati possa vantare la nazionale italiana di pallamano, per non parlare dell’hockey su prato), nel calcio non ci siamo qualificati, ci rimangono volley e pallanuoto maschile. Oggi, a rasserenare il clima pestilenziale della conferenza del nostro marciatore, ci hanno salvato loro.

Il volley ha battuto in tre set, tutto sommato anche senza soffrire troppo, i campioni olimpici statunitensi, che avevano vinto il girone: non grandi individualità, ma ottima compagine. L’Italia, dopo un girone balbettante, ha fatto una grande partita ed è passata. Sul 23 pari del primo set, l’arbitro ha considerato buona una battuta americana fuori di 30 cm. In altre occasioni saremmo usciti di testa e di partita, in questa siamo rimasti lì, e abbiamo fatto la nostra partita. La nazionale di volley è guidata da Mauro Berruto, ex allenatore della Finlandia, uno che ha come frase esistenziale una di Coelho “bisogna rischiare. Capiremo perfettamente il miracolo della vita quando permetteremo all’inaspettato di accadere”. Uno che ha scritto 2 libri di sport sotto forma di romanzi e non come libri tecnici, e che sul suo sito personale mette Oceano Mare di Baricco come il libro della vita. Uno che ai cambi di campo non parla quasi mai di tattica. Insomma, uno diverso: non so dove ci porterà questo mister, ma sicuramente ha un approccio diverso con il volley e con la vita.

La pallanuoto ha battuto i tricampeon olimpici ungheresi dopo una bella partita, sofferta al punto giusto, ma sempre comandata. In nazionale abbiamo un cubano naturalizzato, un ex australiano, un ex croato e uno nato a Budapest. Nel volley i due schiacciatori sono Lasko, polacco naturalizzato, e Zaytsev, figlio di due atleti russi che si sono trovati a giocare, e poi vivere, in Italia. L’allenatore è Sandro Campagna, grande giocatore, che ha allenato anche la Grecia. Vedere Scariolo allenare la Spagna di basket, Damilano la marcia cinese, Messina e Pianigiani due delle più grandi squadre del mondo nel basket. Capello, Lippi, Mancini, Ancellotti, Spalletti e tutti gli altri nel calcio, fa pensare che la scuola italiana è ormai parte di un tutto, pur mantenendo le sue prerogative nei singoli sport. Sentire Zaytsev che parla umbro stretto, e nella panchina bulgara un allenatore pugliese che insulta i giocatori in italiano, fa quasi pensare che il concetto di nazione da tifare sia venuto meno. Non è così. Ed anzi, le medaglie negli sport di squadra sono le più belle, che vengono dopo partite combattute che durano 2 ore, e magari non dopo una prova agli anelli che dura 1 minuto (con tutto il rispetto per gli anelli). E speriamo di vincere anche le due semifinali, sarebbe un bel risultato per il nostro sport, soprattutto per il nuoto, tanto vituperato in queste Olimpiadi.

Oggi mi ha colpito un servizio Rai, di passaggio fra una partita e l’altra. C’era la Cagnotto sul trampolino, i suoi tuffi, le sue lacrime, e immagini di bambina che si mischiavano a quelle di adulta, sempre abbracciata e consolata dal padre, con in sottofondo la canzone La Cura di Battiato. Non si poteva non commuoversi. Esattamente come alla conferenza stampa di Schwarzer, alle sue lacrime a dirotto pensando alla madre che doveva aprire la porta a quelli del Coni, e lui che dentro di se voleva urlarle che non c’era per evitare il controllo, ma poi non ce l’ha fatta, bloccato dai mostri che aveva dentro. Siccome, come detto, coltivo una passione smodata per i perdenti, queste Olimpiadi sono della Cagnotto, della Ferrari, della Pellegrini e di Schwarzer. Ognuno perdente a modo suo. Ognuno vincente a modo suo. Figli diversi di quella strana nazione che è l’Italia. Lacrima. Bandiera sullo sfondo. Dissolvenza.

@aletozzi

London calling – day 13

Le Olimpiadi si disputano ogni 4 anni, come è noto (quelle invernali nemmeno le conto, mi interessa solo il curling poiché mi da la misura che si può essere olimpionici anche con poco, che è una grande speranza per tutti, in fondo. Quasi come il sogno diventare presidenti americani). Come i Mondiali di calcio, in fondo, scandiscono la nostra vita, che anche atleti non siamo, figuriamoci di chi deve parteciparvi. Oggi sentivo che qualche sconfitto già dava appuntamento a Rio 2016, quasi accorciando la vita reale nel tentativo di fare dell’appuntamento brasiliano un’ideale rivincita della sconfitta odierna. Qualcuno invece lascia, poi magari riprenderà, chissà. Qualcuno è indeciso, ed attende l’arrivo di nuove motivazioni per riprovarci; se pensiamo che la Vezzali, la donna più medagliata della storia olimpica italiana, ha già annunciato che a Rio ci vuole essere, mentre siamo in dubbio ci sia la Pellegrini che ha 14 anni di meno, comprendiamo come la testa di un atleta possa far molto, anche grazie magari a sport che lo consentono.

E’ bello che già si pensi al 2016. Aiuta ad esorcizzare il presente, proiettandoci nel futuro lontanissimo. Ma in fondo dietro l’angolo. Nel 2016 avrò 48 anni, e sarò alla mia tredicesima Olimpiade, ma sarà in pratica solo la decima realmente vissuta. Chissà come la vivrò, e se la vivrò. Per ora mi godo a tempo pieno queste, dopo almeno 2 Olimpiadi viste poco e niente, Atene e Pechino. A parte i problemi della Rai, e quelli dei diritti televisivi, trovo uno sport più globalizzato rispetto a come l’ho lasciato a Sidney. Tutti possono fare risultati in ogni campo, bastano impegno, talento e programmazione. Scorrendo l’elenco delle medaglie delle ultime Olimpiadi, comprendiamo anche la mappa del potere economico da un lato, e i programmi alle spalle di alcune nazioni dall’altro. La Cina è ormai la prima nazione nel medagliere, impensabile 20 anni fa. La Corea se la batterà per il terzo posto, idem. La Russia sta scomparendo via via, sostituita in parte da alcune sue ex repubbliche; l’Africa sale pian piano; nuovi paesi si affacciano alla ribalta, altri lentamente quasi scompaiono: alcune nazioni del blocco sovietico sono in piena crisi. E la stessa opulenta Germania, finita la Germania Est e il suo bacino di atleti, sta pagando dazio. Mentre va forte l’Inghilterra, che ha scommesso molto su un progetto a lunga scadenza per le Olimpiadi 2012, e ora sta ricevendo  frutti dell’investimento. Si difende bene la Francia, non decolla la Spagna, rimangono fra le più medagliate anche Australia e Giappone, delle vecchie potenze; rimane fuori dai giochi incredibilmente l’India, e in fondo anche gli sceicchi non è che investano in sportivi locali i loro soldi, preferiscono comprare squadre europee, forse guardano troppa tv…

L’Italia… l’Italia è quasi un miracolo, a pensarci. Buona parte della nostra squadra è di militari, l’ultimo rimasuglio delle partecipazioni statali. Non ci sono impianti, non ci sono investimenti (perché non ci sono soldi), non ci sono programmi: ci sono solo funzionari ben pagati, quello sì. Ci sono, però, tante isole felici, tanti talenti e tantissima passione: quella è tangibile, si tocca quasi con mano anche dalla televisione. Una passione che coinvolge anche gli sportivi ricchi, quelli che con lo sport ci campano e bene: l’Olimpiade aiuta a sentirsi parte di un tutto, cenare una sera con un polacco e quella dopo con un giamaicano toglie quella patina di puzza sotto al naso che alcuni sport tendono ad avere, se non altro per il conto in banca.

Non so quante medaglie vincerà l’Italia alla fine. Per ora siamo a 17, spero siano il doppio per superare le 27 di Pechino, ma sarà difficile. Certamente, dietro ogni medaglia c’è una storia, singola o di un gruppo; ci sono fatica, allenamenti, scelte, esclusioni eccellenti, scoperte. Come c’è una storia dietro ogni gara, e dietro ogni singola prestazione di ognuno dei nostri. Che qui, per 15 giorni, perdono la loro individualità – pur mantenendola in gara – e diventano atleti italiani, da tifare a prescindere da ogni tipo di campanile.

Perchè bisogna capire che, e chi l’ha fatto lo sa, lo sport è una fantastica cartina di tornasole dell’esistenza umana, ed una palestra di vita. Perchè facendo sport si insegnano ai ragazzi molte più cose di quelle che puoi insegnare controvoglia a scuola, per esempio. Ci pensi chi decide le sorti dello sport italiano, dove si trasmette in tv per il 95% soltanto calcio senza nemmeno che si sappia se un italiano ha vinto un mondiale in altri sport.

@aletozzi

London calling – day 6

Nessuna medaglia oggi per l’Italia. La mia personale la metto sul collo di Andrea Baldini, fiorettista livornese. Escluso nel 2008 per l’uso di un diuretico dalle Olimpiadi di Pechino, è arrivato qui in sordina dietro gli altri due italiani, accreditati più di lui per la vittoria. Persa la semifinale col cinese, che poi vincerà, combatte per il terzo e quarto posto col coreano. E qui succede una cosa strana: sin da subito Baldini si lamenta visibilmente che il corpetto del coreano non funziona, e quindi non segnala la sua eventuale stoccata. I giudici inizialmente non gli danno credito, e solo sul 6/3 per il coreano si accorgono che qualcosa non va e cambiano il corpetto. Sul 14/14 Baldini perde per una stoccata perfino dubbia, che forse va a compensare la Corea della beffa di ieri, con l’atleta piangente per un’ora sulla pedana: ci sono tutti gli ingredienti per fare di Baldini il Dorando Pietri di questa edizione. Essendo poi livornese, non voglio pensare alle bestemmie che avrà tirato negli spogliatoi… Peccato anche per l’egiziano, che batte i migliori al mondo e poi perde in finale col cinese: vincendo sarebbe stato eroe del continente alla pari con Mandela, è il primo africano a vincere una medaglia nella scherma.

Nello skeet, disciplina dove spesso vinciamo, in finale il nostro atleta sbaglia due colpi di seguito, e perde una possibile medaglia, dopo una bella rimonta. La cosa più incredibile però avviene nel post-gara: l’atleta danese, allenato da un ex campione italiano, dedica il suo sorprendente secondo posto ai lavoratori dell’Ilva di Taranto ed ai loro problemi, perché il suo allenatore è tarantino, e d’inverno si vanno ad allenare proprio dentro ai capannoni dell’Ilva.

Accade di tutto nel nuoto. Phelps perde dopo 12 anni la sua gara con un sudafricano, che esulta mentre lui si toglie la cuffia e sgattaiola via, per presentarsi venti minuti dopo alla finale della 4×200 e vincere la sua diciannovesima medaglia, record assoluto dei giochi. Perde la Pellegrini, perde Magnini, ora la gente li guarderà perfino male, è questo il destino degli atleti, altare e polvere; anche letto giornali e tv nel loro caso, ma sarebbe ingeneroso sfotterli. Anche se la Pellegrini nuotando malissimo fa due quinti posti, un risultato non da buttare in assoluto, a pensarci.

Un ultimo pensiero per i Pescante. Il figlio, Riccardo, appare in tv commentando un improbabile partita di hockey su prato femminile fra Belgio e Cina per un lunghissimo quarto d’ora, evento del quale non si sentiva il bisogno, considerando che la Rai buca clamorosamente una serie di eventi ben più interessanti; il padre, Mario, vecchia gloria del CIO insieme all’immarcescibile Carraro, appare nella premiazione della gara dei 200 stile libero, quella della Pellegrini, che si era scelto per fare una personale passerella a costo zero: complimentoni.

Ps. Dopo 4 giornate, la Gran Bretagna non ha vinto ancora una medaglia d’oro. Già si da la colpa a Cameron di portare jella, e molte teste cadranno (erano previste un centinaio di medaglie) siamo a 4.

@aletozzi

London calling – day 4

In una giornata deludente per l’Italia, almeno nei grandi nomi, fra il flop della Pellegrini, il tuffo sbagliato della coppia Cagnotto-Dellapè, la squadra di arco femminile eliminata al primo turno, Aldo Montano fuori dopo poco (ci penserà il napoletano Occhiuzzi a vincere un argento), il ciclismo femminile sotto tono, la pallavolo maschile anche, il personaggio che mi ha più colpito è la statunitense Kimberly Rhodes. Ovvero un’illustre sconosciuta, almeno per me, fino ad oggi. E’ la nuova campionessa dello skeet femminile, che succede all’italiana Cainero, entrata in finale col sesto posto, senza però riuscire a rimontare e vincere una medaglia, finendo solo quinta.

Kimberly Rhodes è l’incarnazione perfetta della donna del Far West, manca solo che in una mano abbia anche un bambino piangente, e magari lo allatti, mentre con l’altra spara che è una bellezza per tenere lontani gli indiani. Paffutella, sorridente ad ogni cambio di angolo di tiro, imbracciava il fucile quasi fosse un idrante, con una tecnica ai miei occhi di neofita (che però osservava anche le altre atlete, e il loro stile) che pareva scorretta e prima ancora quasi impossibile. Ebbene, la Rhodes non solo ha vinto l’oro, ma con 99 piattelli colpiti su 100 ha fatto il nuovo record mondiale. Provate voi a colpire per 99 volte su 100 un piattello che vola con una carabina, poi comunicatemi il vostro score. Oltretutto realizzato in un campo di tiro a detta di tutti molto difficile (non mi chiedete perché). L’atleta statunitense, 33enne ma che pensavo ne avesse almeno 10 in più, è la dimostrazione che se ti sai scegliere il tuo sport non contano l’aspetto, il peso, il viso da velina, la tecnica di tiro diversa: se dentro hai qualcosa di importante, e la statunitense oggi ne aveva davvero, alla fine raggiungi il tuo risultato.

Senza dover annunciare anni sabbatici perché a 24 anni hai finito la benzina mentale: le donne del far west, se per caso staccano la spina anche per un secondo, vengono uccise dagli indiani…

@aletozzi

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Il cibo degli Dei

Dopo un paio di giorni di gare e di vita olimpica, Roberto Perrone, maestro di scorribande gastronomiche per il Corriere della sera, ha stilato la sua personale classifica in merito alla qualità della ristorazione. Non possiamo che fidarci del suo giudizio.

Seul 5 – Barcellona 6 – Atlanta 6,5 – Sydney 7,5 – Atene 4,5 – Pechino 5,5 – Londra 5

Momenti di gloria

Per gli amanti dello sport, le Olimpiadi sono sicuramente l’avvenimento più importante sul calendario personale. I Mondiali di calcio sono certo più nazionalpopolari, e fanno scendere in strada dopo le grandi vittorie, ma debbo dire che le Olimpiadi riescono in quello strano mix di passione per lo sport e orgoglio di essere italiani che poche volte altri eventi nella vita ci danno. Sentire l’inno italiano e vedere la bandiera che sale, che si tratti di scherma, judo, tiro con la pistola, corsa nei sacchi o lancio dei semi di cocomero poco importa: è una vittoria olimpica, e come tale va intimamente festeggiata.

Le prime Olimpiadi di cui ho ricordo sono Montreal 1976. Mi dispiace aver letto che ancor oggi i cittadini pagano delle tasse per un bagno economico memorabile. Lì, indelebile nella mia memoria di bambino con la famiglia al mare, è Klaus Dibiasi che vince la piattaforma, ma più ancora Sara Simeoni che si gioca con la Ackermann, un uomo travestito, la medaglia d’oro. E perde.

Mosca 1980, le vidi invece a casa, gli ultimi ricordi in bianco e nero della mia storia televisiva, e quel dito di Mennea che recupera e vince sull’inglese Wells, dopo un rettilineo che rimane nella storia, che festeggiai in terrazzo correndo anch’io. Furono quelle le Olimpiadi dello strappo, con gli americani a casa, e gli italiani che decidono di non mandare gli atleti militari, cioè una buona parte: scelta assurda per chi si allena 4 anni in vista di un obiettivo e se lo vede togliere per beghe politiche.

Los Angeles 1984, quelle del contro strappo dell’est, le vidi in un piccolo televisore al mare, che non prendeva nemmeno bene. Ricordo lunghe notti vissute davanti a questa piccola tv, con il volume al minimo per non disturbare. Indelebili rimangono i fantastici Abbagnale e la telecronaca di Galeazzi con i 38 colpi al minuto; e la sconfitta del povero Angelo Musone, un pugile poi mai emerso, che venne sconfitto da un americano per uno dei soliti scandali delle giurie.

Seul 1988, si disputarono a metà settembre, mi ricordo che stavo preparando l’esame di Economia Politica a casa e le vedevo nei ritagli di tempo. Ma sarebbe più corretto dire il contrario. Il ricordo va a Italia Zambia 0/4, ed eravamo anche una nazionale niente male, e l’oro di Bordin nella maratona, con quella faccia da San Francesco. Ma anche la rabbia di Nardiello nel pugilato, che perde la finale per mano di un coreano, con Pescante che urla “ladri” ai giudici.

Barcellona 1992, ero in viaggio in Inter rail, non ho ricordi o quasi; ogni tanto cercavo di vedere su qualche tv in giro per l’Europa le gesta del Dream Team, la squadra forse più forte di tutti i tempi in senso assoluto. E poi la pallanuoto, con la vittoria contro gli spagnoli padroni di casa dopo una partita interminabile.

Atalanta 1996, me la ricordo bene, credo di averla vista per intero o quasi, anche qui col fuso orario sfalzato, e grandi infinite nottate davanti alla tv. Fra i ricordi italiani quello di Yuri Chechi agli anelli, Antonio Rossi, e la maledizione della pallavolo, che come nel 1992 non riesce a vincere il titolo.

Sidney 2000, anche si disputa a Settembre, ma ho ricordi meno nitidi, solo grandi medaglie nel nuoto, con Fioravanti e Rosolino, e nella scherma.

Atene 2004, va in scena a fine Agosto, ne vedo la seconda parte dopo essere rientrato in Italia dalle vacanze. Ma quell’anno furono grandi gli sport di squadra, con la vittoria delle azzurre della pallanuoto e la finale per gli azzurri del basket e della pallavolo. E, nel finale, le lacrime vere per la vittoria di Baldini nella maratona, un’emozione che ancora mi da i brividi se ripenso quegli ultimi metri.

Finiamo con Pechino 2008. Vidi solo gli ultimi giorni, venivo da una vacanza in Tanzania dove reperire un computer per collegarsi era un problema. Tornai appena in tempo solo per godermi la vittoria di Schwazer nella 50 k di marcia. Poco altro.

Sono così arrivato con Londra 2012 alla decima edizione personale nel mio ricordo; Monaco 1972 non la rammento, meglio così visto quel che accadde. Non so perché, ma le Olimpiadi invernali per me è come se fossero un’altra cosa, non le considero come tali; non so cosa penserebbe De Coubertin di questo, ma non credo sarebbe d’accordo con me.

Ho visto quasi un centinaio di volte sventolare il tricolore sul pennone più alto ascoltando l’inno, a volte in piena notte, altre lontano dall’Italia, ma spesso con grande commozione, come se in quel momento le tue difese emozionali saltassero: parte l’inno e tac! Scende anche la tua lacrima mentre guardi quegli atleti, spesso sconosciuti e di sport minori che non hai mai seguito in vita tua, che si sono fatti il mazzo vero per anni e anni per essere lì, in mondovisione, ad alzare al cielo una medaglia e un alloro.

Se è vero che ormai domina il business, è vero anche che qualcosa in quel titolo olimpico c’è che lo distingue dagli altri, e non è solo la diretta in mondovisione o il villaggio olimpico e le migliaia di giornalisti al seguito, è qualcosa in più: si chiama sport, si chiama passione, si chiama gioia di esserci, ed è bello guardarlo negli occhi degli atleti da tutto il mondo. Non so se l’importante come atleta sia solo quello di partecipare, soprattutto se le cose vanno male dopo anni di allenamenti mirati. Come spettatore sicuramente lo è. Ed è già tanta roba.

@aletozzi

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Avviso ai naviganti: da venerdì 27 in concomitanza con l’inizio dei giochi olimpici saremo online tutti i giorni. “London calling” selezionerà quotidianamente per voi il personaggio, l’evento e la curiosità del giorno. Follow us!