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Io ti strabatto

tennis

“Io ero quel che tu sei, tu sarai quel che io sono”. Poche altre parole potevano descrivere al meglio gli ultimi passi di Marco e di suo padre, prima di scendere in campo il primo e di sedersi in tribuna il secondo. La vittoria finale l’unico risultato contemplato.

Il contesto non era certo quello del Roland Garros, bensì quello di un tranquillo torneo di fine anno in un tranquillo circolo tennis. Il tutto al fine di occupare le ultime ore di lezione del corso in un caldo pomeriggio di giugno. Sul campo in terra battuta i bambini sembravano più pulcini razzolanti che tennisti, così indaffarati a inseguire le palline come se fossero mangime. Le loro racchette, retini per farfalle, così grandi e così poco abituate a centrare palline dalle banali traiettorie. Tutti tranne Marco. Lui era lì solo per vincere. Lui era il gallo in mezzo ai pulcini o almeno era quello che dava a vedere.
“Io ti strabatto, tu straperdi, io stravinco”, questo era il monito che il galletto, prima di ogni incontro, scagliava in faccia ai suoi avversari come un servizio a 200 km/h. Il tutto tra la goduria del padre e l’incredulità degli avversari che pensavano solo al gelato e alle patatine che avrebbero accompagnato la festa di fine torneo.

Il susseguirsi degli incontri sgranava il gruppo dei pretendenti alla vittoria finale. Marco era sempre lì, miniset dopo miniset era arrivato in finale. Dall’altra parte della rete un cicciobello dagli occhi azzurri con il cappellino calcato al contrario. Marco si guadagnava da subito l’antipatia del suo avversario, come del resto aveva già fatto con tutti i precedenti avversari. E come contro tutti gli altri, punto dopo punto, arriva la vittoria. Un urlo dalle tribune e un pugno chiuso si levarono al cielo all’unisono, un fuggi fuggi liberatorio verso il buffet accomunava tutti gli altri tennisti obbligati ad assistere alla finalina. Tutti ad eccezione del campione e del cicciobello dagli occhi azzurri costretto ad andare a stringere la mano al suo avversario, consapevole che questo gli avrebbe fatto perdere tempo e posizioni nella corsa al buffet.

“Bravo il mio campione! Li hai battuti tutti! Facciamoci una foto insieme con la coppa”
“Noooo, sennò non troverò più patatine!”

In fondo un galletto è solo un pulcino con la cresta, ma resta sempre un pulcino.

@lg.fiore

Paris. Jeu, set et match

Quando un paio di mesi addietro ho acquistato dei biglietti per la finale femminile del Roland Garros (piacevole pretesto per giustificare una gita oltre le Alpi), mai mi sarei aspettato di ricevere in regalo dalle divinità del tennis la possibilità di assistere a un incontro tra una tennista italiana e la numero uno del ranking mondiale.

Sara Errani vs Maria Sharapova, meglio di Rocky Balboa vs Ivan Drago. Dal basso del suo metro e sessantaquattro centimetri, Sarita si é trovata dinnanzi il meglio dell’artiglieria dell’armata rossa. Servizi, dritti e rovesci sembravano cannonate pronte a demolire in poco tempo le mura del gioco dell’italiana. Se si guarda il risultato finale si puó avere questa impressione. 6-3, 6-2 sembra il risultato di una partita senza storia, ma quando di fronte hai la numero uno al mondo e riesci a portare ai vantaggi 9 giochi sui 17 finali in fondo tanto male non stai giocando… E poi, vuoi mettere la soddisfazione di essere nella top list di twitter per almeno un’ora! Per la siberiana Maria sono stati già versati fiumi di inchiostro e di kb. Bella, giovane e fortissima. Evidente segnale del passaggio degli alieni sulla terra. Contesa da sponsor e ammiratori, a venticinque anni non credo si possa volere di piú dalla vita. O forse qualcosa c’é. Domenica pomeriggio ci siamo incrociati al dutyfree dell’aeroporto di Orly, davanti a una montagna di m&m’s. Lei dietro un paio di occhiali neri e io con in mano una penna e un foglio di carta prontamente recuperati dal mio zaino. Il suo sguardo timido, forse per i complimenti appena ricevuti, svela un imbarazzo che sul rettangolo di gioco certamente non é suo. Mi viene da pensare che a Maria e ai suoi venticinque anni forse mancano un po’ di spensieratezza e di privacy. Ma è il gioco delle parti e la “Zarina” ci dovrà giocare ancora per qualche anno, poi potrà godersi la libera uscita. Dopo il cordiale congedo, torna a giocare con i suoi nipoti nell’angolo del bar dove è seduto il suo clan e io riprendo la ricerca di un monitor dove poter vedere il debutto europeo dell’Italia contro la Spagna.

Le emozioni del sabato non si sono limitate alla sola finale femminile. Come preludio, su un campo limitrofo al P. Chatrier, si giocano gli incontri degli atleti master. Per i più giovani, Navratilova, Graf, Hingis, Novotna saranno sembrate delle simpatiche e brave tenniste della domenica, per me e per chi naviga in zona “anta” sono un pezzo di adolescenza. Per non parlare di Mcenroe, Wilander, Leconte, ecc. ecc. Tutti intorno alla cinquantina, con fisici usurati dagli sforzi giovanili, in qualche caso con dei girovita che imbarazzerebbero anche “bisteccone” Galeazzi. Veri artisti della racchetta, i loro tocchi sono rimasti quelli che mi hanno fatto innamorare di questo gioco. Se chiudo gli occhi riesco a vedere i colpi di Big John e sentire le sue urla, adesso come venti e passa anni fa. Il suo tennis è rimasto rock come un riff di Keith Richards.

Quando non esisteva Sky e tutto il tennis passava sui canali Rai, passavamo i pomeriggi con la racchetta in mano a vedere le partite di questi eroi, pronti a imitare i loro colpi vincenti. I racchettoni in grafite erano più che un miraggio all’orizzonte e la mia Spalding blu in legno, sembrava più una mazza da baseball che una racchetta da tennis. Poi sono arrivati Sampras, Agassi, Ivanisevic, Federer, Nadal e Djokovic e la poesia del gioco è andata piano piano spegnendosi lasciando spazio alla potenza e a materiali super tecnici. Jeu, set et match.

@lg.fiore